giovedì 8 ottobre 2009

RISOTTO ALLA FILIPPINA - racconto culinario di Pupi Bracali



Se proprio devo scegliere preferisco mangiare che fare da mangiare, ma quella era una serata speciale e il risotto alla filippina avevo deciso di farlo.

Mi sentivo davvero in vena culinaria e indossai il mio grembiule bianco su cui campeggiava la scritta “da domani faccio dieta” e mi misi all’opera. Preparai gli ingredienti danzando per la cucina e muovendomi tra il tavolo e i fornelli canticchiando la frase “Faccio il risotto alla filippina...faccio il risotto alla filippina” sulle note di “Material girl” di Madonna. Ebbi persino l’impulso di telefonare a Giorgio (il mio migliore amico) per comunicargli che stavo per cucinare il risotto alla filippina, ma poi mi dissi che quella era una serata tutta mia e gliel’avrei raccontata il giorno dopo. Misi la pentola con abbondante acqua a bollire versandole dentro una manciatina di sale grosso, mentre a parte preparavo gli ingredienti per il condimento. Il riso Basmati mi sembrò l’ideale per fare il risotto alla filippina. Scese dal pacchetto come una cascata bianca e scrosciante andando a riempire la metà di un normale piatto fondo. Ogni chicco, minuto e con le estremità appuntite, mi ricordava il pezzo di legno affusolato del gioco della lippa. Pimpirinella lo chiamavamo noi bambini albenganesi giocandoci nel piazzale antistante la stazione accanto a quella piccola pineta che resiste ancora imperterrita al suo posto. Il parcheggio a quei tempi non esisteva ancora e le macchine che transitavano in Piazza Matteotti erano poche e rade.
Mi stupii di quel pensiero remoto ed invadente che mi distraeva dalla mia opera di cuoco e riacquistai la mia concentrazione.
Alzai il coperchio della pentola controllando il bollore non ancora a pieno regime e mi dedicai al resto della mia ricetta. In una pentola di terracotta versai cinque cucchiai di olio extravergine di oliva di Arnasco, vi sfogliai mezza cipolla di Tropea tagliata a rondelle e uno spicchio d’aglio intero dopo averlo leggermente schiacciato, senza romperlo, col dorso di un cucchiaio di legno. Controllai nuovamente il bollore, ora al punto giusto, e versai il riso nell’acqua bollente abbassando leggermente l’intensità del fuoco. In un piatto piano stesi, dopo averle sciacquate sotto l’acqua, alcune foglie di una salvia carnosa e morbida tagliandola a striscioline col coltello e alcune foglioline di basilico della Piana di Albenga e altre di menta che invece lasciai intere nella loro fragranza. Il riso cuoceva lentamente e lo controllavo spesso poiché per l’ottima riuscita della ricetta dovevo scolarlo ancora al dente. Misi la pentola di terracotta con l’olio, l’aglio e la cipolla sul fornello piccolo a fuoco bassissimo. Non potevo permettermi di sbagliare i tempi; la doratura della cipolla e dell’aglio non poteva e non doveva anticipare la cottura del riso che stava ora per compiersi.
Dal mio piccolo scomparto delle spezie e degli aromi presi tutto ciò che mi occorreva: la cottura era quasi ultimata, la rosolatura era al punto giusto sprigionando nell’aire il profumo delicato di aglio e cipolla.
Versai nel soffritto la salvia, il basilico e la menta, rimestai con il cucchiaio di legno, e colai il riso al dente scuotendo il colapasta per eliminare più acqua possibile. Il riso era perfetto: i chicchi si staccavano ben separati tra di loro, non collosi e appiccicosi come in certi orribili ristoranti di infima categoria. La salvia, il basilico e la menta cominciavano ad abbrustolirsi leggermente e in quel momento aggiunsi un pizzico di timo, uno di origano, del dragoncello, un po’ di maggiorana e di prezzemolo. Un rametto di rosmarino odoroso finì sfrigolando nell’olio a concludere l’insieme degli aromi. Rimestai ancora una volta facendo amalgamare il tutto e vi versai il riso colato che si sposò a quel condimento con la grazia di una verginella la prima notte di nozze. Un minuto dopo, il riso amalgamato a quell’insieme di erbe e di spezie dal colorito bruno non era più una verginella ma il partecipante a un’orgia; un’orgia di profumi, di fragranze e di sapori. Abbandonai la mescolanza per qualche secondo e in una scodella ruppi tre tuorli d’uovo dopo averli separati dall’albume. Quando il risotto assunse un bel colorito dorato vi versai sopra i i tre tuorli facendo nuovamente amalgamare il tutto con il cucchiaio di legno. Se il sapore fosse stato come lo spettacolo che avevo sotto gli occhi la perfezione sarebbe stata raggiunta. Il riso dorato, era striato dal colorito bruno della salvia leggermente fritta, il prezzemolo, la menta e il basilico lo punteggiavano di verde, il giallo dei frammenti di uovo ormai addensato a mò di stracciatella univano quei chicchi appetitosi. Fu in quell’istante che cosparsi sul riso una sventagliata di pepe nero macinato sul momento e...
... e fu in quel momento che suonarono alla porta.
Suonarono alla porta ed era lei! Era lei bellissima, con una bottiglia di Vermentino in mano e un sorriso da mille e una notte.. Era lei bellissima con un paio di jeans stretti a fasciarle i fianchi evidenziando due natiche strepitose. Era lei in maglietta attillata “che immaginavo tutto”. Lei con quei capelli lisci e talmente neri da avere dei riflessi azzurri, lei con la sua pelle olivastra e quel taglio di occhi da gatta, neri e profondissimi. Era lei: la colf filippina dei vicini del piano di sotto che dopo mesi di estenuanti “avances” ero riuscito ad invitare a cena.
“Che profumino...” Miagolò con quella voce infantile e un po’ nasale che mi sembrò terribilmente sexy.
“Ti ho fatto... ti ho fatto un risottino...”. Riuscii a balbettare togliendomi il gembiule mentre lei annusava l’effluvio profumato alzando il coperchio della pentola.
Il miagolìo proseguì: “Come chiama tu questa ricetta con riso?”
La ricetta? Il nome? E io che diavolo ne sapevo di come poteva chiamarsi quel risotto inventato quella sera.
“Risotto alle erbe fragranti di Liguria” mi uscii dalla bocca in modo ridondante e serio.
“Mmhh... sembrare molto buono...”. Disse lei osservando dentro la pentola.
“Senti...” dissi io, “non so se vuoi mangiare subito o invece...”
“Se noi mangia adesso, prezzemolo restare tutto in mezzo denti e io non portato spazzolino...”
Mi prese per mano come se conoscesse la casa e andammo in camera da letto.
Mentre per ogni minuto che passava in quella stanza noi eravamo sempre più caldi; in cucina il “Risotto alle erbe fragranti di Liguria” diventava sempre più freddo.



Maurizio Pupi Bracali

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